Approfondimento

Alaska! Maxi Tex… on the rocks! - parte 2

Un dio cannibale, inquietanti "spiriti della foresta" e una terra misteriosa e inesplorata. Gianmaria Contro ci fa da guida in queste fredde e pericolose lande, teatro delle avventure di Tex e Carson nel diciassettesimo Maxi Tex, in edicola dal 5 ottobre.

A cura di Gianmaria Contro

03/10/2013

Alaska! Maxi Tex… on the rocks! - parte 2

Artisti e cannibali nelle terre di ghiaccio

Tlingit e Tagish sono etnie native che non capita spesso d’incontrare, perlomeno nei più popolari reperti del Western cinematografico, “classico” o “moderno” che dir si voglia. Nella filmografia di John Ford, Howard Hawks, John Sturges, Sam Peckinpah o Sergio Leone – giusto per capirci – non ce n’è traccia (a meno che qualche opera “minore” non si sottragga ostinatamente alla nostra memoria e alle nostre ricerche)... Ma, questioni di puntiglio filologico a parte, è certo che alla scarsa attenzione riservatagli dal grande schermo ha sempre fatto da contrappeso un forte interesse da parte di antropologi e studiosi vari. Non è un caso: tanto per cominciare, entrambi questi popoli, come altri che abitano le regioni nordoccidentali del continente americano, sono depositari di tradizioni artigianali – o artistiche – estremamente sofisticate, le cui realizzazioni non cessano di suscitare stupore e ammirazione.

Tra i loro manufatti lignei più noti (che Lito Fernandez, nel Maxi Tex, ha splendidamente riprodotto) figurano infatti quei “totem” che nell’immaginario cine-fumettistico sono spesso divenuti veri e propri sinonimi di “civiltà indiana”. Il nome di queste singolari statue – che il viaggiatore John Long trasse, nel 1791, dal termine “odoodem”, in lingua algonchina-Ojibway – è di fatto un prodotto della figura retorica nota come metonimia, che, in questo caso, usa l’astratto per indicare un oggetto concreto. Quello di totem è infatti un concetto, un’“idea religiosa”, presente in molte civiltà tribali, secondo cui l’ascendenza, il destino e l’identità stessa di un gruppo (clan) sono indissolubilmente legati a un’entità spirituale che si manifesta sotto forma di animale, albero, pietra, e via dicendo... Questo profondo legame con le forze naturali, anche le più oscure e minacciose, è all’origine della ricca cultura leggendaria e magica della comunità Tlingit, i cui sciamani fanno talvolta uso, nelle loro cerimonie, di maschere di fattura molto fine,ma dalla fisionomia assai poco rassicurante. In particolare, vale la pena di ricordare le cosiddette ghost mask, le quali – si dice – sarebbero infestate da entità sovrannaturali, forse da quelle che noi chiameremmo “anime” dei morti. Sarebbe suggestivo, benché storicamente fantasioso, immaginare che esista un legame tra questi oggetti e quelli (non meno mostruosi) indossati dagli antichi samurai giapponesi per terrorizzare i loro nemici... Lo diciamo, perché proprio i marinai del Sol Levante potrebbero essere stati tra i primi a imbattersi in questa popolazione: secondo un aneddoto di origine incerta sembra infatti che una giunca nipponica abbia lambito le Aleutian Islands (alle estreme propaggini occidentali del Golfo d’Alaska) intorno alla fine del XVIII secolo... Ma non distraiamoci. Magia e leggende, dicevamo. Ebbene, basterà ricordare quella del tarlo e della figlia del capotribù, storia bizzarra e vagamente “kafkiana” (ricordate “La metamorfosi”?) che vede una giovane nativa nutrire e crescere un tarlo fino a fargli raggiungere la lunghezza di... un braccio! Questo patrimonio di miti e favole è custodito gelosamente dalle popolazioni del Nordovest, al punto da averle spinte – nel 1999 – ad autoprodurre “Kusah Hakwaan”, film che narra la rischiosa avventura di due fratelli Tlingit destinati a imbattersi, giustappunto, nella temibile Kusah Hakwaan (sorta di strega-demonio ghiotta di carne umana).

A proposito di cannibalismo, sarebbe difficile negare l’affinità che lega questa storia con quella di Hamatsa, il gigantesco dio-antropofago che compare anche all'interno di “Alaska!”. Nella realtà, per gli antropologi il suddetto Hamatsa non sarebbe il nome di un essere a sé stante, ma piuttosto quello di una confraternita segreta che, sul finire del XIX secolo era (forse) dedita a macabri banchetti rituali. Il mito su cui questi signori basavano le loro pratiche richiama molto da vicino – dicevamo – quello di Kusah Hakwaan: alcuni guerrieri si smarriscono durante una battuta di caccia e si trovano costretti ad affrontare il terribile gigante-mangiauomini Bakbakwalanooksiwae nella cui casa sono malaguratamente entrati (più o meno quel che capita a Odisseo con Polifemo). Sconfiggendolo, proprio come accade all’eroe germanico Sigfrido con il drago Fafnir, i valorosi cacciatori acquisteranno poteri magici...

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