Grandi “sombreros” oscurano il Sole, mentre baffi unti di sudore danzano, mossi dalla parlata spiccia del “bandolero”. Le cartuccere scintillano nella polvere, i cavalli nitriscono al crepitare dei fucili. E tutt’intorno calura, canicola che secca la terra, una terra sbiancata e infiammata senza sosta da quell’astro impietoso che brucia lassù…

La Rivoluzione Messicana ci appare così, nel dormiveglia del nostro immaginario: una confusa massa di figure stereotipate, forse rubate a qualche film d’altri tempi. Viva Zapata! di Elia Kazan (1952), per esempio, dove Marlon Brando presta i suoi lineamenti aristocratici al viso ruvido e “popolano” del grande guerrigliero; oppure Giù la testa di Sergio Leone (1971), che di quegli eventi tumultuosi vedeva soprattutto il lato ironico, l’amaro sorriso di tante speranze fiorite per poi appassire in fretta.

In questo sogno fatto di impressioni vaghe, vecchie pellicole e reminescenze scolastiche galleggiano tanti nomi. Primo fra tutti, accanto a Zapata, quello di Pancho Villa, naturalmente. Poi – per chi ha la memoria un po’ più allenata – ecco Madero, Carranza, Orozco, Huerta, Díaz, e via dicendo. Nomi a cui bisogna dare un luogo e un tempo, un’identità, un destino; volti circondati da una folla di anonimi combattenti, donne e uomini, avventurieri e idealisti, filosofi e analfabeti, molti dei quali occhieggiano nelle quarantotto splendide tavole de L’Uomo del Messico.