Scomparso il 26 luglio, Luigi Corteggi ha ricoperto, per oltre vent’anni, il ruolo di art director della Sergio Bonelli Editore. Ma è stato anche un grande illustratore e grafico per altre realtà editoriali, come pure un ottimo pittore e ha addirittura lavorato nel mondo dei flipper e dei videogiochi. Della sua lunga attività bonelliana abbiamo già raccontato, attraverso le sue stesse parole, poche settimane fa. Questa volta vi proponiamo il suo interessante racconto riguardante la sua carriera professionale lontano dalla nostra Casa editrice, raccolto in redazione nel corso di una chiacchierata risalente al 2014.

► Quali sono i tuoi primi ricordi da disegnatore?

Da bambino, quando avevo 8-10 anni, pasticciavo sulla carta; passavo un sacco di tempo disegnando tutte le immagini che mi venivano in mente. Il fumetto come professione è arrivato alla fine degli anni 50. Inizialmente avevo frequentato l’Accademia di Brera, per poi specializzarmi in grafica pubblicitaria e iniziare a lavorare in quell’ambito. Al fumetto non ci pensavo neanche… Ho avuto un mio studio per cinque anni, poi c’è stata una crisi, verso il ’63-’64. A quel punto, mi sono inventato qualche tavola a fumetti e mi sono messo a girare le case editrici in cerca di un’occasione.

Da bambino, quando avevo 8-10 anni, passavo un sacco di tempo disegnando tutte le immagini che mi venivano in mente…

Quando hai debuttato nel fumetto, dunque?

Avevo fatto delle illustrazioni per l’Intrepido e per l’enciclopedia del Monello, ma in realtà il primo lavoro davvero legato al fumetto è stato “Maschera Nera”, con l’Editoriale Corno. Ho realizzato solo una manciata di albi, ma mi avevano chiesto di illustrarne anche le copertine. “Maschera Nera” l’ho comunque disegnato nel mio studio; nella redazione della Corno sono entrato successivamente, alla fine del 1964.

All’inizio alternavi il ruolo di disegnatore a quello di grafico?

Sì, nel frattempo era nato Kriminal e mi avevano chiesto di studiarne il logo e disegnarne le copertine. Però sono riuscito a far valere realmente la mia qualità grafica solo quando la Corno ha cambiato sede. Avevano tanti progetti, e con i primi soldi incassati grazie a Kriminal si sono ingranditi. Nella nuova redazione di viale Romagna sono nate tante nuove pubblicazioni, e mi hanno affidato la grafica di tutte: facevo i loghi, le copertine e l’impaginazione. Su Eureka accompagnavo con dei miei disegni anche gli articoli di Luciano Secchi o Pier Carpi.

► Le copertine di testate come Kriminal e Satanik erano caratterizzate da immagini oniriche, molto simboliche…

Non le solite immagini, diciamo. Nelle prime copertine mi ero rifatto un po’ a Carlo Jacono, che era il mio dio, come illustratore! Nella copertina di “Un occhio fisso nella ragnatela” si vede Kriminal di spalle e delle ombre che vengono avanti: quella è stata la prima in cui ho pensato di dover fare qualcosa di nuovo. E da quella volta, a parte qualche rara eccezione, non ci sono più state copertine graficamente “normali”: cercavo sempre di uscire dall’abitudine, di sorprendere e catturare l’occhio del lettore…

► Dunque è stata quella la copertina spartiacque tra il Cortez illustratore “classico” e quello scatenato che ci ha regalato illustrazioni indimenticabili.

Sì, anche se all’inizio non avevo un’idea chiarissima di cosa fare. L’evoluzione si è compiuta piano piano. Degli albi di cui dovevo realizzare le copertine, io volevo sapere solo i titoli: non volevo conoscere per filo e per segno cosa succedeva dentro l’albo – a parte alcune storie, in cui succedeva qualcosa di particolare e bisognava per forza presentarlo in copertina. Per esempio, in “Mare aperto” non era vero che avevano ripescato una tuta di Kriminal, però una copertina del genere avrebbe attirato il lettore. Giocavo un po’ col surreale, volevo scioccare il lettore per fargli dire “chissà cosa succede, qua dentro!”…e poi magari non succedeva niente di così eclatante…

Degli albi di cui dovevo realizzare le copertine, io volevo sapere solo i titoli: non volevo conoscere per filo e per segno cosa succedeva dentro l’albo.

E la pittura, invece? Trovi ancora il tempo per dipingere?

Pittura e illustrazione sono due cose diverse. La pittura non l’ho mai abbandonata: ho iniziato che non avevo ancora 15 anni e non l’ho mai messa da parte. Amavo dipingere paesaggi, ma da quando è nata la faccenda del “surreale” ogni tanto faccio dei quadri con delle immagini un po’ strane, che uno non si aspetta.

► Molti ti conoscono proprio per le tue copertine dell’epoca Corno, o magari per il tuo ruolo di art director bonelliano, ma non molti sanno della tua collaborazione con l’industria dei flipper e dei videogiochi, allora agli albori. Com’è andata?

È stata un’esperienza importante. Disegnavo i quadri frontali e i piani di gioco dei flipper tra il 1965 e il ’70. Un amico mi mise in contatto con la ditta Dama, che aveva affittato un seminterrato in corso Sempione, a Milano, attrezzato con grandi tavoli da disegno e con tutto il materiale necessario. La sera ero lì fino all’una o le due di notte. Poi andavo a dormire, e il giorno dopo ero alla Corno a lavorare! Di flipper ne avrò fatti una quindicina. Prima realizzavo tutto il disegno a matita, poi questo veniva colorato e quindi veniva creato il disegno per i telai – un telaio di seta per ogni colore – e questi venivano stampati. All’epoca il sistema serigrafico si basava sui colori piatti: se c’era un flipper con 12 colori, tu dovevi creare quei 12 colori, non si potevano combinare come invece succede nella quadricromia. Conservo ancora il vetro stampato di tre o quattro dei flipper a cui ho lavorato.

► Poi invece sei passato ai videogiochi. Com’è successo?

Uno dei due soci della Dama aveva un’altra ditta, che si chiamava Olympia. L’era dei flipper stava un po’ tramontando, e questa Olimpia si stava spostando sui videogiochi. Così, visto che io lavoravo già per lui, abbiamo iniziato a fare videogame. Inventavamo delle storie, che poi io disegnavo interamente sul video utilizzando tecniche simili a quelle del cartone animato: un disegno per ogni immagine necessaria. Oggi è senz’altro più semplice, ma allora si disegnavano tre fondali, per restituire al giocatore l’impressione del movimento: il primo seguiva la velocità del giocatore, il secondo si muoveva appena e il terzo era quasi fermo. Era un lavoraccio! Mi avevano addirittura dato il computer a casa: mia moglie si alzava dal letto alle due del mattino e veniva in studio a chiedermi perché non andavo a dormire. Io non mi rendevo conto di che ora fosse! Quello dei videogiochi è un lavoro terribile: ti appassiona, ma devi pianificare tutto…

► Ti ricordi quanti pixel avevi a disposizione, per creare un oggetto da far apparire sullo schermo?

Pochissimi! Allora nei videogame si usavano molto le corse automobilistiche, la Formula 1, per cui dovevi disegnare il circuito con gli alberelli, la casuccia… e l’automobile. Ma proprio perché all’epoca lavoravamo con pochissima memoria, i paesaggi erano tutti speculari, per non sciupare byte. Anche l’auto… Finché andava dritta era calcolata perfettamente, ma quando curvava… con i pixel che avevamo una volta… la dovevi sgangherare tutta! Se fermavi l’immagine ti chiedevi “Ma cos’è, quella macchia lì?” Ricordo quando ci arrivò la prima memoria dal Giappone… un milione di byte! Meno di un MB: una memoria ridicola, al giorno d’oggi, ma per noi era una quantità enorme!

Avevo creato un videogame basato su un safari fotografico in Africa, “Portraits”. È stato un lavorone, perché ho dovuto creare tutti gli animali, farli correre…

Quindi tu realizzavi sia il gioco sia le serigrafie che accompagnavano il cabinato?

Tutto, anche le decorazioni del vetro posizionato davanti allo schermo. Avevo creato un videogame basato su un safari fotografico in Africa, “Portraits”. Sul cabinato avevo fatto la caricatura del cacciatore con la macchina fotografica e la scimmia sulla spalla, con il piede sul coccodrillo, di fianco al leone. Il gioco è stato un lavorone, perché ho dovuto creare tutti gli animali, farli correre… La scimmia che passava, il fotografo che si girava per scattare… Mi avevano comprato una tavola con tutti i chiodini colorati, quelli che si usano per i bambini: quando dovevo risolvere qualcosa, facevo la prova lì. Per esempio, gli occhi erano tre pixel: se ne facevi due bianchi e uno marrone davi la direzione dello sguardo…

► Se oggi dovessi creare una nuova serie a fumetti o un nuovo videogioco, partendo da zero, affronteresti temi legati allo spazio e all’astronomia?

Sicuramente, tant’è vero che ho fatto il mio “Meteor & co.” (pubblicato da Editoriale Mercury). Ma mi piacerebbe anche il west, difatti avevo creato una serie intitolata “Thomas”, per un piccolo editore che stava aprendo in quel momento. Avevo disegnato i primi due numeri, ma quando sono andato in redazione per farmi pagare il secondo, l’ho trovata vuota! Erano spariti i mobili, la segretaria, la macchina per scrivere e gli originali del fumetto. Non ho più saputo niente… 

► Che storiaccia… Ma ne ho sentite anche altre, parlando con altri autori tuoi coetanei, soprattutto di lavori di cui poi non venivano restituiti gli originali.

Una volta non si usava… Io non ho fatto tanto fumetto, ma ho lavorato per diverse case editrici realizzando illustrazioni di fantascienza e di cosmologia. Qualche originale sono riuscito a rincorrerlo e farmelo ridare, ma molti sono spariti, sono stati buttati via. Una volta non importava a nessuno: venivi pagato e venivi pubblicato, ed eri tutto contento.

A cura di Luca Del Savio