Ironico e dotato di una cultura enciclopedica, Decio Canzio amava i gialli e la buona cucina. Nel suo ruolo di Direttore Generale, consigliava gli autori e controllava ogni dettaglio degli albi bonelliani. Nel suo ruolo di sceneggiatore, gli piaceva spingersi oltre i confini dei “generi”…
Una quindicina di anni fa, avevo buttato giù uno schema per una serie di racconti brevi ambientati a Nizza. Il protagonista si chiamava Garibaldi (da leggere “Garibaldì”, con l’accento sulla “i” finale) ed era il patron di un piccolo ristorante in un vicolo un po’ fuori dalle rotte turistiche nella Città Vecchia. Il locale era frequentato soprattutto da clienti fissi che costituivano una sorta di rassicurante famiglia.
Le storie prendevano il via allorché lo chef scopriva che un cliente mutava d’improvviso le sue preferenze alimentari. Perché Madame Chapelle, che, per una vita, aveva abbondato con la salsa “rouille” nella zuppa di pesce, improvvisamente la rifiutava sdegnata? Secondo lui, se non c’erano di mezzo diete o altre ragioni di carattere medico, questo atteggiamento sorgeva a causa di un problema, a volte anche grave. Tra un piatto e l’altro, Garibaldi indagava, sfoggiando, alla bisogna, un’enciclopedica cultura. E scopriva che quasi sempre il problema c’era davvero. Lo schema comprendeva, ovviamente, altri personaggi legati da precise dinamiche, e, in più, una serie di particolari e “tic” che caratterizzavano il mondo di Garibaldi (“Le mond de Garibaldi” era il nome della trattoria).
Inutile parlarne, visto che ho abbandonato subito il progetto, non avendo tempo di occuparmene. Vi dirò, però, uno dei tic: quando Garibaldi cominciava a “vedere la luce”, andava al lavandino e lavava gli occhiali con il sapone da cucina; li asciugava con uno strofinaccio e li inforcava, pronto a osservare il mondo con occhi diversi.