CHE C’È DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE? LA RISPOSTA DOVREBBE ESSERE: “NIENTE”. Come nel celebre romanzo di Erich Maria Remarque, come nell’indimenticabile film di Lewis Milestone. Negli ultimi fotogrammi in bianco e nero di quel vecchio film, una farfalla annuncia il fragile risveglio della primavera nell’immobile, desolato paesaggio della “Terra di Nessuno” fra le trincee contrapposte. Il soldato, Paul, si sporge e tende la mano verso il battito d’ali.


Fotografia scattata nel 1915,
in una trincea sulle Argonne.

Il gesto cruciale è interpretato dalla mano del regista, che resta sospesa un attimo, per qualche fotogramma di speranza. Poi ricade. Una pallottola nemica ha ucciso il soldato. Ma la sua morte non fa notizia. Il bollettino di guerra, per quel giorno, recita: “Nicht neues“. Niente di nuovo. Niente da segnalare. Eppure, in realtà, c’è sempre qualcosa di nuovo sul Fronte Occidentale. Su tutti i fronti di tutte le passate guerre. Verrebbe voglia di dire, con Georges Brassens, che ciascuno ha la sua guerra preferita: “Da quando l’uomo scrive la Storia! da quando combatte allegramente / se fra mille e una guerre famigerate / fossi costretto a fare una scelta / al contrario del vecchio Omero / io dichiarerei senza esitare: Mio colonnello, quella che preferisco/ è la guerra del ’14-18!“. Senza disprezzare le altre, però: “Chacune a quelque chose pour plaire/ chacune a son petit mérite!“. Tutte hanno qualcosa che può piacere, ognuna ha il suo piccolo merito.

IRONIA FEROCE DI UNO “CHANSONNIER” PACIFISTA, SI SA, MA C’È SOTTO DEL VERO. La guerra ispirava Brassens e del sincero romanticismo aleggia attorno ai due zii, Les deux oncles dell’omonima ballata, uno che parteggiava per Uncle Sam, l’altro per il Führer. E non mancano pathos ed eroismo nel disertore di Boris Vian, nel Piero di Fabrizio De André o nel legionario di Edith Piaf. I pacifisti cantano l’amore, ma anche la guerra. Due facce della stessa medaglia, Non escludo nemmeno che alcune delle canzoni citate siano passate in uno dei juke-box di Sergio Bonelli. Lui le conosceva bene e le amava le canzoni di guerra. Non molto tempo fa, durante una conversazione, cercava di ricordare il titolo di una canzone inglese del 1916, di cui sicuramente possedeva la versione jazz suonata al sax soprano da Sydney Bechet, a Parigi, negli anni Cinquanta. A qualcuno venne in mente, forse al sottoscritto, forse ad Alfredo Castelli.


La locandina del film “La croce di ferro”, diretto nel 1977 da Sam Peckinpah.

Era la struggente Roses of Picardy. Eh si, Remarque forse si contraddice, nel titolo stesso del suo capolavoro. Sui vecchi fronti di guerra c’è sempre qualcosa di nuovo, in termini di emozioni, vicende, insegnamenti, ispirazioni e pretesti narrativi. Non a caso, tra le mete preferite rite dei viaggi di Sergio Bonelli, il nostro editore e narratore di sogni e avventure, c’erano, proprio in testa alla classifica dei posti da visitare, quelli che, con un’abusata ma suggestiva locuzione, vengono chiamati “teatri di guerra”. I luoghi dove, a centinaia o migliaia, gli uomini del passato hanno interpretato la tragedia della vita, affrontandosi alla morte.

L’ERBA FINISCE PER CRESCERE SULLA “NO MAN’S LAND” FRA LE TRINCEE ABBANDONATE. Il grigio paesaggio di morte rinverdisce e torna a vivere. Ma è popolato di fantasmi. E i campi di battaglia si trasformano davvero in teatri immaginari, in musei a cielo aperto delle emozioni umane. Quante vite perdute, quante storie sepolte e mai raccontate, quanta intensità di sentimenti, di paura, dolore, adrenalina, energia, disperazione, crudeltà, eroismo, potrebbe evocare un campo di battaglia. Quanto fragore, dove ora c’è silenzio. Naturalmente è un silenzio che va saputo ascoltare, che va interpretato, sognato. Forse era questo a emozionare Sergio Bonelli.

Chissà, per lui che, ragazzo sfollato in Liguria, della Seconda Guerra Mondiale aveva udito solo l’eco lontana, quei posti dovevano avere assunto una suggestione particolare. Anche sui vecchi campi di battaglia, la guerra, un tempo tanto intensa, accecante e assordante, è ormai solo un’eco, un ricordo. I ragazzini giocano alla guerra. I grandi, quando non sono costretti a farla, vi si appassionano. Sergio ha (uso il presente, perché i libri sono sempre lì) centinaia di volumi di cose militari nella sua biblioteca, tra cui tutti i libri illustrati della Osprey. Sotto chiave, naturalmente. Qualche volta li prestava, per documentazione. Ma li teneva d’occhio, sempre sospettando che alcuni mariuoli (in particolare ancora il sottoscritto o Castelli), rinnovassero, per così dire, il prestito a loro discrezione, e all’infinito. Ecco perché ogni tanto me lo ritrovavo nel mio ufficio, le mani dietro la schiena, il viso rivolto verso gli scaffali accanto alla mia scrivania, a cercare da me qualche libro che si era disperso…

LA COMUNE PASSIONE PER I “TEATRI DI GUERRA” L’AVEVAMO SCOPERTA QUANDO GLI CONFESSAI, TANTI ANNI FA, che d’estate, nelle mie escursioni in montagna, andavo talvolta sul Pasubio o sulle Dolomiti di Sesto o al Monte Cristallo lungo vecchi percorsi di trincee della Grande Guerra, spesso riattati e percorribili, altre volte pericolanti e franosi. Gli dissi che sul Monte Chaberton della Val di Susa, da ragazzo, dei miei amici sventati mi avevano fatto entrare nei bunker murati e nelle gallerie della Seconda Guerra Mondiale, in cerca di elmetti e dinamite. E rammento che Decio Canzio ci raccontò allora una sua giovanile avventura durante il servizio di leva, sulla mulattiera che da Ulzio sale a Fort Chaberton, in compagnia di un ostinato mulo… Sergio poi mi mostrò la sua piccola, ma variegata collezione di elmetti e copricapi militari. Beh, almeno sulle battaglie in alta quota, da escursionista alpino avevo su Sergio un piccolissimo vantaggio.


Il poster di “Zulu”, film molto caro a Sergio Bonelli.

In tutto il resto non c’era possibile confronto. Lui aveva visto i forti dei Crociati e quelli della Legione Straniera, era stato sul Little BigHorn tra le Colline Nere e alle Pianure di Abramo a Québec, era stato a Isandlwana in Sudafrica… Fu qui che, nel 1879, un’armata inglese di un migliaio di uomini venne annientata dall’esercito di Re Cetshwayo. Sergio Bonelli amava tanto questa vicenda da farne l’argomento di uno Speciale di Mister No, Zulu! Ma ne diede una versione onirica e bizzarra, con una sorta di stralunato generale Custer alla guida delle truppe britanniche, in modo da fondere assieme due dei suoi miti bellici in un piccolo capolavoro avventuroso e pacifista.

QUALCUNO RICORDA IL FILM ZULU, DEL PRIMI ANNI SESSANTA, CON STANLEY BAKER E MICHAEL CAINE? ERA UNO DEL PREFERITI DI BONELLI. Narra l’eroica resistenza di un pugno di inglesi, dopo il massacro di Isandlwana. Un centinaio di militari e civili resistettero, in un piccolo trading-post nella savana, Rorke’s Drift, all’assedio di quattromila bellicosissimi guerrieri Zulu per quasi due giorni, e alla fine li respinsero. Rorke’s Drift, come la resistenza della Legione Straniera a Camerone, in Messico, come la disfatta del Settimo Cavalleggeri al Little BigHorn, come Fort Alamo, è un classico esempio di “last stand“: così vengono definiti quegli episodi bellici in cui una minoranza resiste impavida all’assedio e agli attacchi di preponderanti forze nemiche. Che gli sfortunati eroi soccombano o, in rari casi, trionfino, fa forse qualche differenza per loro, ma ben poca per l’appassionato di Storia bellica, che giustamente vede, nei “last stands“, il non-plus-ultra, la perfezione estetica ed etica dell’azione di guerra, non nei suoi aspetti tattici o tecnico-militari, che pure sono significativi, ma soprattutto in quelli umani. Sergio Bonelli, come tutti gli scrittori d’Avventura, era appassionato di assedi e resistenze sino all’ultimo respiro. Ah, e naturalmente era stato di persona anche lì, a Rorke’s Drift…

DURANTE I VIAGGI NELL’AMATO SAHARA, SERGIO VISITAVA I LUOGHI LEGGENDARI DELLA LEGIONE STRANIERA, quelli che avevano ispirato il Dino Battaglia de L’Uomo della Legione, uno dei volumi che, in quanto editore, era più fiero di aver pubblicato. Dormendo sotto le stelle in un fortino diroccato della Legione, perso nel deserto, sognava di essere Gary Cooper in Beau Geste.


Estratto da “L’uomo della Legione”, scritto e illustrato da Dino Battaglia.

Nel Montana, ripercorreva a piedi, passo dopo passo, mappa della battaglia alla mano, gli spostamenti di Custer, Reno, Benteen, Toro Seduto, Cavallo Pazzo: la sua vivida, straordinaria immaginazione gli permetteva di animare quei posti silenziosi e ancora selvaggi con i colori, i suoni, i movimenti di quell’epico scontro tra i cavalleggeri e i Sioux. Fu molto coraggioso Claudio Nizzi a spedire Tex sul Little BigHorn: Sergio avrebbe potuto coglierlo in fallo, perché lui c’era stato di persona e in pratica aveva rivissuto tutta la battaglia dal vero!

Mister No, il personaggio del suo alter ego Guido Nolitta che più incarna l’anima vagabonda e inquieta di Sergio Bonelli, è rappresentato come un reduce di guerra. È stato pilota e fante nella Seconda Guerra Mondiale, prima sul fronte del Pacifico, poi in Italia e nelle Ardenne. E ogni tanto rievoca quelle sue esperienze di soldato audace, ma anarchico e indisciplinato, in alcune delle più belle storie della serie, come l’indimenticabile Mister No va alla guerra, realizzata con l’amico Roberto Diso e ambientata nelle Filippine. E poi ricorda Guadalcanal, Montecassino… La guerra e i campi di battaglia come fonte d’ispirazione? Sicuramente sì. Anche per i suoi collaboratori, quando osavano cimentarsi – scusate il gioco di parole – con uno dei suoi cavalli di battaglia. A Tito Faraci hanno sicuramente tremato i polsi, quando Sergio gli ha chiesto di ambientare un “Romanzo a fumetti” durante la battaglia di Montecassino (Linea di sangue). E a me pure, quando mi ha dato lo spunto per il Texone Patagonia, corredandolo di mappe e rotte delle spedizioni militari nel Gran Chaco Austral!

NEGLI ULTIMI ANNI, SERGIO AVEVA DIRADATO LE SUE FATICOSE AVVENTURE SUDAMERICANE E AFRICANE, ED ERA TORNATO A VIAGGIARE PER L’EUROPA, continente più di ogni altro ricco di epopee sanguinose, scorribande di eserciti, vittorie, sconfitte e cimiteri di guerra. Era stato a Waterloo e tra i bunker della Normandia, ma ho il fondato sospetto che anche lui, come il narratore di quella canzone di Brassens, avesse una predilezione per la Prima Guerra Mondiale, per le trincee scavate sul fronte occidentale, per le cave di Arras, il saliente di Ypres e la campagna della Somme. Luoghi che frequentava e rifrequentava ogni estate, collezionando sempre nuovi angoli caratteristici, piccoli cimiteri alleati, musei di guerra, E gli brillavano gli occhi quando, a inizio settembre, magari gli dicevo che quell’anno anch’io ero passato da Arras o da Bastogne. Dopo il pranzo in cui era stata citata quella vecchia canzone, Roses of Picardy, finalmente mi ero deciso a sceneggiare anch’io un fumetto sulla Grande Guerra. Era un soggetto che avevo nel cassetto da un po’, ma, come appare chiaro da quanto si è detto, non è mai stato semplice scrivere una storia di guerra alla Sergio Bonelli Editore, viste le conoscenze di Sergio in materia, quasi fosse stato “testimone oculare” dei fatti del passato.


La copertina di Enea Riboldi per Dampyr N. 153,  “Terra di Nessuno”.

La Grande Guerra, poi, materia infinita delle sue peregrinazioni estive… che sfida impegnativa! Naturalmente sarebbe stata una storia di Dampyr, serie che offre la possibilità narrativa di scorribande nel passato…

BEH, C’È VOLUTO UN PO’ DI TEMPO, MA LA STORIA È STATA SCRITTA. E DISEGNATA, DA ALESSANDRO BOCCI. Vede la pubblicazione nel dicembre 2012, con il titolo Terra di Nessuno. Ma Sergio non la potrà leggere e, a questo punto, i due autori non sapranno se, a detta di chi nella Terra di Nessuno c’è stato davvero, l’atmosfera e le emozioni di quella tragica epopea sono state ben ricostruite. La canzone Roses of Picardy, di cui nel fumetto non si può ascoltare purtroppo la struggente, sinuosa melodia, è parte integrante della storia, quasi un piccolo fulcro narrativo, con le sue malinconiche e romantiche parole di un’era più semplice e semi-dimenticata: “E gli anni volano per sempre … e le rose moriranno insieme all’estate… ma c’è una rosa che non muore in Piccardia ed è la rosa che conservo nel cuore“. È una canzone inglese, ma, come accade in tempo di guerra, veniva cantata anche da francesi e tedeschi, da una trincea all’altra. Qualcosa che li affratellava e che avevano in comune, oltre ai pidocchi e alla paura, prima di iniziare a spararsi addosso.

Insomma, quella canzone è stata inserita nella storia grazie a Sergio e per Sergio, in onore della sua passione per la Grande Guerra e per i campi di battaglia che percorreva curioso e instancabile, in cerca di emozioni e di nuove storie, in cerca di vita là dove era passata in grande scala la morte.